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DIREZIONE MACONDO

 

 

 

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Con Fabiola Maffeis e Silvia Sonzogni - Musiche eseguite dal vivo da Dario Cangelli - Costumi di Giusi Piazza - Luci e fonica di Pierangela Cattaneo - Regia di Carlo D’Addato

 

Macondo è un luogo dell’immaginario universale uscito dalla penna dell’apostolo del Realismo Magico Gabriel García Márquez.

Ci siamo messi sulle sue tracce, scoprendo che questo villaggio esotico accompagna la produzione letteraria di “Gabo” già da molto prima di Cent’anni di solitudine (pubblicato nel 1967). Nel 1955 esce infatti il Monologo di Isabel che vede piovere su Macondo, che è stato il punto di partenza per un lungo percorso di dialogo drammaturgico, scenico e musicale tra noi e Márquez, sospeso tra la deferenza al testo e la consapevolezza che, soprattutto a teatro, amare è tradire.

 

Il Monologo di Isabel mentre vede piovere su Macondo rappresenta, secondo molti esegeti, l’atto di nascita di quello stile letterario chiamato Realismo Magico, anche se, come vedremo, molte sue caratteristiche sono in fondo presenti da sempre nella storia della letteratura e dell’arte in generale.

Il Realismo Magico è basato su un dispositivo narrativo che presenta nella storia un evento o un fenomeno soprannaturale, senza possibili spiegazioni razionali, che i protagonisti del racconto però accettano come dato di fatto, mettendo a nudo, in relazione a esso, le loro caratteristiche umane più profonde.

Oscar Wilde diceva che ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero.

Pablo Picasso diceva che l’arte è una menzogna che aiuta a capire la verità.

Eugenio Barba, parlando del Terzo Teatro, dice che il suo paradosso sta nell’immergersi, come gruppo, nel cerchio della finzione per trovare il coraggio di non fingere.

Ebbene, le finzioni magiche e le iperboli grottesche di Márquez sono state un enorme monumento con il quale confrontarci, per dipanare un sentiero di ricerca sul significato stesso del teatro e, più in generale, sull’esigenza cosmica di farsi altro-da-sé per tentare di capirsi e di capire.

Sul piano formale, abbiamo deciso di non toccare il testo del racconto, che gli spettatori troveranno identico dalla prima all’ultima parola. Una scelta e una sfida, perché la rigorosa linearità dello sviluppo narrativo consente una più profonda elaborazione delle modalità di rappresentarlo, evitando così di finire anche noi nell’ormai fin troppo affollata orbita che gravita intorno all’astro del cosiddetto Teatro di Narrazione.

 

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